Sunday, February 26, 2006

Chi ha paura della terza cultura?




Published on Il Sole 24 Ore (26 February 2006). All rights reserved.Copyright Il Sole 24 Ore. Do not reproduce without permission.
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Che la scoperta di una classe di neuroni premotori nel cervello dei macachi possa avere importanti ripercussioni filosofiche sulla natura della socialità umana ha qualcosa di sorprendente: dopotutto, cosa c’entra l’attivazione di una cellula del sistema nervoso di una scimmia con il complesso intrigo delle nostre relazioni sociali? Al di là delle appassionanti discussioni suscitate da questa scoperta (per una visione d’insieme del dibattito recente si veda il convegno: www.interdisciplines.org/mirror ), essa ci dice qualcosa su come sono cambiati negli ultimi vent’anni i rapporti tra le “due culture”, come le aveva definite C.P. Snow nel suo famoso saggio del 1959 The Two Cultures, ossia tra scienze naturali e scienze umane. Antropologia, linguistica, sociologia, tutte discipline che stabilirono la loro autonomia affermando l’indipendenza del piano delle manifestazioni sociali e culturali umane dal loro sostrato biologico, lasciano spazio oggi a programmi di ricerca naturalistici, in continuità con i metodi delle scienze naturali (proprio questa settimana, a Parigi, l’antropologo Maurice Bloch ha svolto la sua lezione inaugurale al Collège de France sul tema: L’antropologia cognitiva alla prova della sperimentazione empirica: il caso della teoria della mente). E’ possibile allora una terza cultura, come l’ha definita l’agente letterario John Brockman, in cui le scienze empiriche partecipano a renderci un’immagine di senso di noi stessi e del nostro agire?
Indagare le basi biologiche dei sentimenti morali, dei giudizi estetici, dell’interpretazione degli altri o delle credenze religiose provoca ancora un’immediata resistenza intellettuale, in nome di un’eccezione dell’esperienza umana situata storicamente e irriducibile ai suoi vincoli naturali. Una simile direzione di ricerca sembra stravolgere profondamente la missione stessa delle scienze umane e sociali, volte a comprendere come le strutture storico-sociali, i rapporti di potere e di dominazione culturale si incarnano negli esseri umani fino a determinarne le espressioni individuali. Una tensione quindi apparentemente irrisolvibile tra modelli esplicativi incociliabili. Ma è proprio così?
Due critiche principali sono rivolte ai programmi di ricerca naturalistici nelle scienze umane. La prima è il riduzionismo, ossia ridurre esperienze sociali e personali complesse a meccanismi neurofisiologici. La seconda è l’anti-storicismo, ossia la mancanza di contestualizzazione storica, di indagine genealogica sugli oggetti stessi della ricerca, come se le forme di pensiero e gli schemi di azione che cerchiamo di spiegare siano “tipi naturali” immutabili. E bisogna riconoscere che spesso alcuni esponenti del nuovo naturalismo irritano proprio per le pretese riduzioniste e universaliste. Prendiamo il progetto della neuro-estetica:. Vilanayur Ramachandran sostiene che alcune risposte neurologiche a stimoli “esagerati” (come un occhio grande il doppio di un occhio normale) sono alla base della nostra esperienza estetica (un effetto neurologico presente anche nei topi che si chiama: Peak Shift). L’idea di aver sostituito alle “vaghe speculazioni degli storici” un principio scientifico di attribuzione di valore estetico suona piuttosto immodesta. Ma lo studio delle risposte psicologiche alle opere d’arte è stato intrapreso anche da valenti storici dell’arte, come per esempio David Freedberg, che nel suo lavoro seminale Il potere delle immagini (Einaudi, 1993), cercava di comprendere i vincoli psicologici e antropologici universali delle risposte umane alle immagini. Niente di riduzionista né di anti-storicista nell’approccio di Freedberg, solo un tentativo di guadagnare intelligibilità senza privarsi delle risorse delle scienze empiriche.
Sull’anti-storicismo si potrebbe argomentare che le spiegazioni che vanno per la maggiore oggi negli approcci naturalistici sono anch’esse di natura storica: gli argomenti evoluzionisti cercano di spiegare un comportamento o una forma mentis attuale in termini di una storia di adattamento del nostro cervello a condizioni ancestrali.
Così per esempio il filosofo Daniel Dennett, nel suo nuovo libro Breaking the Spell (Viking, 2006) si cimenta in un tentativo di spiegazione naturalistica delle nostre credenze religiose in termini darwiniani. Dennett isola in alcune predisposizioni cognitive i “germi” delle credenze religiose, come la capacità di leggere i fenomeni intorno a noi in termini intenzionali, e la conseguente predisposizione a cercare agenti responsabili di ciò che accade, o la maggiore memorabilità dell’informazione contro-intuitiva, di cui le religioni abbondano. A queste tendenze cognitive individuali, Dennett unisce numerose speculazioni sui principi della selezione dei gruppi, sull’evoluzione della struttura corporativa della religione e sulla selezione nel tempo, basata sull’autorità, di insiemi di credenze invulnerabili alla prova. Anche in questo caso però, l’ortodossia darwinista di Dennett può infastidire il lettore. Ma se l’eccessivo finalismo evoluzionista di Dennett sembra a sua volta una forma di credo religioso, non significa che il tentativo di guardare la religione con gli occhi delle scienze naturali sia un progetto privo di senso. Basta leggere direttamente i lavori antropologici a cui Dennett in parte si ispira, per trovare studi, come quello di Scott Atran, In Gods We Trust, (Oxford, 2002) che affiancano ad argomenti evoluzionisti osservazioni ecologiche e antropologiche ed esperimenti psicologici per ricostruire il “paesaggio ecologico” in cui un sistema di credenze evolve e si mantiene. Atran spiega le differenze tra religioni animiste, panteiste e monoteiste in termini di “distanza” psicologica nelle rappresentazioni che i diversi gruppi umani hanno del loro mondo biologico circostante e della società in cui vivono: laddove le rappresentazioni della natura e della società tendono a confondersi (come nelle società totemiche) avremo religioni animiste. Più le rappresentazioni tendono a distanzarsi, più si tenderà verso sistemi monoteisti. Ecco un esempio di una prospettiva non riduzionista né anti-storicista, ma che si appoggia sulle scienze empiriche nella spiegazione di un fenomeno religioso.
La terza cultura va vista allora come una cultura vettoriale, in cui spiegazioni provenienti da discipline differenti interagiscono senza ridursi una all’altra. Basti pensare ancora, come ultimo esempio, ai lavori sulle emozioni di Jon Elster, in cui neurobiologia, letteratura e teoria della scelta razionale entrano come vettori di una spiegazione insieme causale e concettuale di cosa significa sentire (Cf. J. Elster The Alchemies of the Mind, 1999). E’ possibile allora una terza cultura? La tentazione è forte di vedere in questi assemblaggi leggeri di saperi una nuova via della conoscenza, una cultura pluralista che tesse trame fitte tra fatti e interpretazioni senza l’onere ideologico di ridurre gli uni alle altre o viceversa.