Tuesday, March 30, 2010

La loi d’Obama sur la reforme de l’assurance maladie : une promesse à sa mère

Stanley Ann (at the center) playing with some friends in Indonesia

« Aujourd’hui, je signe cette lois au nom de ma mère, qui a du se battre avec les compagnies d’assurance pendant les derniers jours de son combat contre le cancer ». C’est ainsi que Barack Obama a parlé le 23 mars 2010, lors de la signature du Patient Protection and Affordable Care Act, une loi historique qui donne l’accès à l’assurance maladie aux Etats Unis à 32 millions de citoyens américains qui en étaient dépourvu.

Pendant sa campagne et après son élection, il n’y a pas eu un seul discours sur la reforme de l’assurance maladie qui ne mentionnait pas sa mère, Stanley Ann Dunham, anthropologue, idéaliste et militante du microcrédit, morte à 52 ans en 1995 d’un cancer aux ovaires. A’ l’époque du premier diagnostic, Stanley Ann était en train de changer de travail, et après des années de collaboration avec la Ford Foundation, elle allait rejoindre le Women World’s Banking qui finance des projets de microcrédit visant à sortir les femmes de la misère dans différents pays du monde. Un contrôle de routine à New York releva un problème aux ovaires. Après des années de travail à l’étranger, et dans un moment de transition d’un emploi à l’autre, Stanley Ann était dépourvue de couverture sociale aux Etats Unis. Elle repartit donc en Indonésie où elle pouvait se permettre de se faire soigner. Mais les médecins firent là-bas une erreur de diagnostic. Rentrée aux Hawaii, la où ses parents résidaient, déjà très malade, Stanley Ann mourut après un douloureux combat contre la maladie, mais aussi contre les compagnies d’assurance qui lui niaient l’accès aux soins dont elle avait besoin. Une blessure que Barack Obama, à l’époque avocat des droits civils et professeur de droit à Chicago, n’oubliera jamais.

C’est en 1995 que son premier livre, Les rêves de mon père (Paris, Presses de la Cité, 2008) sort aux Etats Unis, un drôle de titre pour une autobiographie en grande partie consacrée au souvenir de sa mère. Il écrit : « La plupart des personnages de ce livre font toujours partie de ma vie, mais il y a une exception : ma mère, que nous avons perdue brutalement, à la suite d’un cancer […] Elle voyageait à travers le monde, travaillant dans de lointains villages d’Asie et d’Afrique, aidant les femmes […] Je me dis parfois que si j’avais su qu’elle ne guérirait pas j’aurais peut-être écrit un autre livre, j’aurait rendu davantage hommage à celle qui était la seule constante de ma vie. Je ne sais pas essayer d’exprimer à quel point je pleure encore sa mort. Je sais qu’elle était l’être le plus noble, le plus généreux que j’aie jamais connu, et que c’est à elle que je dois ce que j’ai de meilleur en moi »

L’engagement d’Obama vis-à-vis de cette reforme a été crédible pour les gens car c’était un engagement non seulement au nom d’une vision politique, d’une idéologie, mais un engagement profondément personnel, une promesse faite à sa mère dans le désespoir de sa perte. La partie la plus vraie, sincère de ce brillant politique est enracinée dans son histoire, dans les valeurs de justice et de communauté que sa mère lui a inculquées tout au long de son enfance. Une femme libre, visionnaire, courageuse au point d’épouser un étudiant africain en 1960 et avoir un enfant avec lui, un choix qui était puni encore par la loi dans plus de la moitié des Etats Unis. Une vie d’études – sa thèse de doctorat en anthropologie vient d’être publiée (Surviving Against the Odds: Village Industry in Indonesia. Duke University Press, 2009), mais aussi d’engagement auprès des femmes pauvres, d’amitié et de solidarité avec les démunis, les malades, les enfants.

Les étapes de l’histoire sont écrites très souvent pour rendre des comptes à son histoire personnelle. La loi historique qu’Obama a fait passer au prix d’un dur combat politique s’inscrit dans l’histoire de sa vie, dans sa dette humaine et morale vis-à-vis de cette femme unique.

Thursday, March 18, 2010

Disgrace

Draft. Do not quote. Submitted to IRIDE

Vergogna
, il libro più filosofico di Coetzee, è l’illustrazione di un paradosso morale, di come qualsiasi posizione morale non possa che restare muta davanti alla violenza della terra, del sangue e della generazione. La traduzione italiana del titolo inglese Disgrace non rende pienamente giustizia dell’atmosfera di disgrazia che permea il racconto: la vergogna è un sentimento consapevole, un passo avanti della coscienza di sé che, secondo il filosofo Bernard Williams, ha un ruolo fondamentale nella formazione del senso di colpa occidentale (cf. B. Williams, Shame and Necessity, California Academic Press). La disgrazia è invece un concetto cristiano sottile: è la condanna dell’azione malvagia perché priva di grazia divina e terrena. E’ la traccia dell’anti-aura sull’anima e sul corpo del disgraziato, una specie di malformazione morale. Il disgraziato è già in parte discolpato perché il suo misfatto è causato dalla sua insufficienza morale, sgraziata e miserabile.

Il libro è una storia di disgraziati. Disgraziato è il protagonista, David Lurie, professore di letteratura di mezza età, che si trova coinvolto nello scandalo provocato da una relazione sessuale con una sua studentessa ed è costretto a dare le dimissioni. Disgraziata è la figlia di Lurie, Lucy, omosessuale solitaria e ideologica, che cerca conforto negli animali e nella coltivazione di un fazzoletto di terra ostile, circondata da una comunità locale che non può che vederla come una diversa, una colona bianca animata da sentimenti pacifisti fasulli nel mondo spietato della lotta razziale sudafricana. Disgraziati sono i malvagi del racconto: i tre uomini che compiono il misfatto, la violenza carnale su Lucy, l’aggressione efferata al padre e l’uccisione dei cani della fattoria: tre delinquenti poveracci, insufficienti moralmente perché vittime della loro sciagura umana. Disgraziate anche le bestie, quei cani abbandonati sacrificati nell’inceneratore della clinica veterinaria vicina alla fattoria dove David Lurie si rifugierà a lavorare, forse perché solo nelle bestie prive di tutto, di diritti, di rispetto e di pietà, può ormai riconoscersi. Disgraziata è Bev Shaw, la veterinaria grassa e ottusa che passa le sue giornate a iniettare l’ultimo veleno a quei poveri randagi, quietando le loro ansie mute con qualche gesto di conforto, con una pacata richiesta di fiducia che gli animali le concedono facilmente per consuetudine e vengono immediatamente traditi.

“Devi essere abituato a un altro tipo di vita” dice Bev Shaw a David Lurie, stupita della solerzia con la quale il professore l’aiuta nella macabra impresa della clinica.
“Un altro tipo di vita? Non sapevo che la vita si distinguesse in ‘tipi’” risponde sarcastico Lurie. Eppure a Salem, sulla strada tra Grahamstown e Kenton, dove si trova la fattoria di sua figlia, la vita sembra darsi in ‘tipi’, in specie differenti e inconfrontabili, ognuna circondata da una spessa cerchia di valori propri, sordi alle ragioni dell’altro.

Così il professor Lurie aveva difeso il suo diritto a essere un tipo differente nel suo processo improvvisato all’università per la sua vicenda carnale con Melanie Isaacs. Non era il tipo da chiedere il perdono pubblico, e aveva preferito la condanna all’umiliazione di rinnegare pubblicamente il suo desiderio per la giovane preda. Dunque sì, a volte la vita si dà in tipologie e bisogna sapere di che tipo si è.
Ma, una volta arrivato alla fattoria della figlia per scappare al tipo di vita che non voleva rinnegare pubblicamente, David Lurie non può capitolare per intero, non può cedere completamente a quel nomos della terra, dell’etnia, che governa il fragile equilibrio della campagna di Salem. Lurie è un intellettuale, uno specialista di Wordsworth e di Byron, un uomo di ragione, benché vittima, come spesso accade a quel tipo umano, del suo esasperato narcisismo maschile, che lo fa credere attraente agli occhi di una ragazza ventenne e nevrotica in cerca di conferme intellettuali e ancora inconsapevole dell’immenso potere del suo giovane corpo. La debolezza di Lurie rientra in un tipo di umanità ben repertoriato dalla morale pubblica, facilmente identificabile e condannabile.

E invece, nella sospensione dalla civiltà che la fattoria di Lucy rappresenta, David Lurie per la prima volta fa esperienza di un altro ordine di conflitto: l’attacco alla fattoria è una guerra combattuta tra forze ctonie, incontrollabili e irredimibili da qualsiasi valore morale, una guerra di sangue e terra, di morte, generazione e di conquista.
Tre uomini si avvicinano al territorio di Lucy: i cani abbaiano, la figlia cerca di tenerli lontani. Chiedono di fare una telefonata. Lucy li fa entrare incauta in casa, la porta sbatte, David Lurie si ritrova chiuso in uno sgabuzzino, le grida della figlia nell’altra stanza gli danno alla testa, uno degli uomini lo cosparge di benzina e gli dà fuoco: il tempo di dibattersi tra le fiamme e il misfatto è compiuto. Lo spregio dei conquistatori della nuova terra è sparare sui cani, guardiani inerti dello scempio razziale di quei tre disgraziati. La sequenza è rapida, cinematografica, Lurie si dimena tra le fiamme, cercando di spegnere il fuoco che divampa sul suo corpo immergendo la testa nella tazza del water. Non sa se si salverà, la vita non è mai stata così “qui e ora”, non sa nulla di quel che sta succedendo se non che nulla sarà mai più come prima.

La sua prima reazione, riavutosi dallo choc, è di proteggere Lucy: bisogna delimitare il territorio, costruire un recinto, mettere un allarme: Lucy non può vivere più sola in quel luogo: Petrus, il suo vicino aiutante, deve vegliare su di lei. Bisogna andare alla polizia, dare tutte le informazioni necessarie per rintracciare i colpevoli. Ma Lucy non reagisce. Inebetita dagli eventi, si piega al suo destino di dominata: lei, bianca, è in minoranza in quelle terre, non c’è morale né legge che tenga. Come un animale docile, come quei cani randagi che si piegano all’inevitabile fine che li aspetta, Lucy non parla, non accusa, si lascia andare alle leggi selvagge del mondo che ha scelto: come le piogge, le epidemie, i raccolti magri, anche il suo stupro è una disgrazia naturale.

David Lurie non riesce a capire, i suoi valori si confondono: nello stupro di Lucy riconosce la violenza del desiderio carnale che lo ha rovinato all’università. Proteggere sua figlia è anche riparare il suo danno su Melanie Isaacs. Quella vicenda apparentemente banale, se non per le conseguenze estreme sulla sua vita materiale, ora gli appare sotto una nuova luce. Ma il suo non è un pentimento: è il riconoscimento di un istinto così profondo e animale che la sua lettura della vita non aveva mai fatto emergere: l’istinto della copula, del mating: un mate, ossia un partner per l’accoppiamento, lo si riconosce dall’odore, dalla fisionomia che corrisponde alla nostra per i fini riproduttivi. Lurie non ha potuto evitare infatti, nei pochi secondi che precedono il misfatto, di notare la bellezza fisica di uno dei tre uomini che si accaniranno di lì a poco su sua figlia. Così, andando a teatro per cercare di rivedere Melanie Isaacs, si chiede sapendola a qualche fila di distanza da lui, se lei senta la sua presenza, se riconosca l’odore del suo partner che si è infilato nella sua pelle.

Nella confusione morale che segue lo stupro, Lurie decide di andare a trovare il padre di Melanie. Il signor Isaacs, padre di famiglia religioso, lo accoglie e lo perdona, sicuro del suo pentimento. Ma Lurie avrebbe voluto spiegare al signor Isaacs ben altro: avrebbe voluto fargli capire che quel che è successo era inevitabile: è stato il mutuo riconoscersi di due animali adatti ad accoppiarsi. Isaacs non lo capisce, lo perdona e lo incoraggia ad affidare tutta la vicenda nelle mani di Dio, a capire il messaggio che Dio ha voluto inviare attraverso questa disgrazia.
Nel dialogo tra i due uomini c’è anche una sottile complicità di ‘tipo’, di specie, come se il padre della ragazza, benché timorato di Dio, non potesse che identificarsi facilmente in quel desiderio maschile per un corpo giovane. Allo stesso modo, la complicità femminile fa scudo contro Lurie intorno allo stupro di Lucy. Sono le donne che consolano sua figlia. La violenza carnale, così come il sangue mestruale, la gravidanza, il parto, sono cose da donne, abituate da millenni a essere violate, soggiogate dai corpi massicci e pericolosi dei loro copulatori.

Le insistenze di Lurie perché Lucy si difenda e accusi i colpevoli, protetti in realtà da tutta la comunità locale, compreso il fedele aiutante Petrus, incrinano la convivenza tra padre e figlia. Il bisogno di giustizia legale di Lurie si scontra con l’accettazione passiva della legge di natura da parte di Lucy. A una festa organizzata da Petrus, Lurie riconosce uno dei tre criminali. Si infuria con Petrus, che risponde a mezze parole alle domande agitate del professore. Pollux, il giovane stupratore, è della famiglia di Petrus, è un protetto, non si tocca. L’ira di Lurie contro il ragazzo non serve a nulla. Ormai Lucy ha accettato il destino e la gravidanza che quella violenza ha portato con sé. Non era uno stupro dunque, ma un accoppiamento, un’estensione del territorio dei tre conquistatori fino alle viscere di sua figlia. Nascerà un bambino dal misfatto, e la terra si ricomporrà nel calore del sangue mescolato in quella nuova vita.

Lurie, a passeggio con la cagna fedele di Lucy, unica sopravvissuta alla strage, incontra il giovane Pollux, lo insulta, lo fa aggredire dalla cagna, gli urla “Suino!”, Swine in inglese, nome di ‘tipo’ appunto, di categoria, non di un animale preciso. Pollux non è un maiale: è della specie dei suini, perché in questa lotta ancestrale non ci sono identità, né responsabilità individuali, ma tipi, specie di azioni che ci fanno essere parte passivamente di un genere umano.

Come sempre è l’esperienza, non la morale, che ci dà occhi nuovi: la visione campestre della figlia piegata sul raccolto, con un cappello di paglia, un vestito largo e la pelle chiara e trasparente della sua specie, lo emoziona esteticamente come un quadro di Sargent o di Bonnard. Come se per la prima volta vedesse qualcosa di bellissimo che era sempre stato lì, sotto i suoi occhi. Così le poesie di Wordsworth lette in classe agli studenti, prendono un senso nuovo. Il sentimento del poeta davanti alla maestosità del Monte Bianco nel sesto libro di The Prelude, di colpo diventa evidente: anche Wordsworth è soggiogato dall’immensa forza muta della natura, dal potere della terra, eternamente pronta a eruttare e sconvolgere ogni nostra certezza morale.