Tuesday, September 28, 2010

Diario brasiliano: elezioni 2010


Draft. Do not quote without permission. Scritto per l'edizione web di Micromega

Lo sguardo di chi arriva dalla vecchia e perfida Europa delle identità nazionali, dell’aziendalizzazione di scuole e ospedali, del mercato onnipresente che soffoca qualsiasi ideale, qualsiasi slancio, è incredulo: seduta davanti alla televisione giovedì 23 settembre per il terzo dibattito elettorale, mi trovo davanti a quattro, ben quattro candidati alla presidenza del Brasile tutti di sinistra! E’ mai possibile? Forse ho sbagliato canale e sto guardando la telenovela delle otto di sera di RedeGlobo, quella che fa sognare più di 100 milioni di brasiliani ogni giorno…ma no: è proprio la diretta dall’università cattolica di Brasilia e sono proprio loro che sfilano, Dilma Rousseff (PT, Partito dei Lavoratori, e soprattutto partito di Lula) José Serra (PSDB, Partito Socialdemocratico Brasiliano) Marina Silva (PV, Partito Verde) e addirittura il vecchio Plinio de Arruda Sampaio, ottant’anni di militanza socialista, ora candidato del PSOL, Partito del Socialismo e della Libertà, nato nel 2004 da un gruppo di dissidenti del PT che erano stati espulsi dal partito.

Dibattitto all’americana, organizzato in quattro blocchi, ognuno di 15 minuti, il primo blocco dedicato alla presentazione dei programmi, tre minuti a testa, poi a rispondere alle domande degli accademici, poi dei giornalisti e infine a farsi domande tra di loro. E’ la festa della democrazia soprattutto, dice fiero il presentatore: non dimentichiamo che siamo in Sudamerica, che le democrazie qui sono quasi tutte giovani, nate dopo decenni di dittature violente. Il Brasile ha conosciuto la dittatura dal 1964 al 1985, un regime di “capitalismo autoritario” meno feroce delle dittature vicine, come L’Argentina o il Cile, ma con l’eliminazione dei partiti politici, la censura, la persecuzione degli oppositori, tra i quali ben tre dei quattro candidati oggi alla presidenza. Il golpe del 1964 fu realizzato con l’appoggio dei militari americani, in “debito” con l’esercito brasiliano, che mandò 25 000 soldati brasiliani, la Força Expedicionaria Brasileira, a combattere sulla Linea Gotica a fianco di americani e partigiani (ci sono un paio di piccoli cimiteri negli Appennini e un monumento a Pistoia a ricordare questa storia). Ma la storia precedente del Brasile non era certo una storia democratica: alti e bassi tra tentativi di repubblica controllata dall’oligarchia dei grandi proprietari terrieri, e regimi liberali, ma senza opposizione, come quello del tanto amato Gétulio Vargas, che dal 1930 al 1954 aveva fatto il bello e il cattivo tempo in perfetto stile peronista. La giovane democrazia brasiliana, che compie quest’anno 25 anni, è dunque davvero un trionfo, e i candidati, così come l’intero popolo brasiliano, ne sono fieri.

Dilma Rousseff è la favorita nelle elezioni del 3 ottobre. I sondaggi dicono che non ci sarà nemmeno il secondo turno, previsto per il 15 novembre: elezione secca con il 50% più un voto il 3 ottobre. L’effetto Lula è oggi così forte (80% dei consensi) che la meno carismatica delfina può sperare di cavalcare l’onda. Il suo progetto è la continuità con gli otto anni di “miracolo lulista”. Luiz Ignacio Lula da Silva lascia un’eredità di crescita economica colossale, di politiche sociali innovative, e, per la prima volta, di ruolo internazionale del Brasile, che reclama un posto a pieno titolo tra i potenti della Terra, e che ha giocato un ruolo di negoziatore nelle crisi recenti di Haiti e in Africa. Come ovunque, in un mondo in cui non ci si può fidare più di nessun valore, il carisma di Lula è frutto della sua traiettoria personale. Figlio di una famiglia povera del Nordest, la regione più miserabile del Brasile, Lula nasce nel 1945, a Garanhuns, nel Sertao. Quando ha 7 anni, la madre si trasferisce con i sue sette figli a San Paolo, un viaggio di 13 giorni, nel retro di un camion, che Lula ricorderà per tutta la vita. A San Paolo il giovane Luìz Ignacio vende arance e lucida scarpe, ma a 15 anni riesce ad ottenere un diploma di perito metallurgico e comincia a lavorare in fabbrica. A 25 anni diventa sindacalista a tempo pieno e nel 1975, presidente del sindacato degli operai metallurgici. E’ uno dei protagonisti dei grandi movimenti sindacali che fanno vacillare la dittatura nei primi anni Ottanta. Oratore senza pari, Lula comincia una carriera politica brillante, che lo vede candidato alle presidenziali più volte, nel 1989 contro Fernando Collor, e nel 1994 e 98 contro il sociologo Fernando Henrique Cardoso, che governerà il paese con rigore fino al 2002 e sarà il fautore di riforme finanziarie essenziali (come l’introduzione della nuova moneta: il real) che rimetteranno in sesto la fragile e complicata economia brasiliana dopo gli anni di politica corrotta di Collor. Negli anni, Lula ha imparato a sedurre la classe media: è simpatico, parla fuori dai denti, ha capito che il nuovo Brasile non è fatto solo di miserabili e di grandi ricchi, ma di gente qualunque che lavora, guadagna, viaggia, guarda il calcio alla tivù ed è orgogliosa di essere brasiliana. Il miracolo di questo continente sterminato, più grande dell’Europa, con differenze etniche, sociali e culturali che noi europei non possiamo nemmeno immaginare, è che esiste un’identità brasileira, un modo di essere, di vivere e di pensare che si ritrova dalle steppe aride del Nord al ricco centro agrario, all’industralizzato e freddo Sud.

In un misto di sindacalismo operaio e cattolicesimo di sinistra, Lula predica una società egualitaria: “Nessun attore della società deve restare escluso: è questa la mia eredità”. E il piano riesce, anche se in mezzo a tanti compromessi: il Brasile non va avanti senza i fazenderos e una politica economica che faccia crescere la ricchezza che resta comunque in poche mani. Lula si sottomette quindi a un realismo economico ormai obbligatorio nei mercati globali, la riforma agraria che era al centro della sua campagna non gli riesce: le terre restano nelle mani di pochi. Ma i progetti di costruzione di case, ospedali, scuole, scuole professionali proliferano in tutti gli stati. E’ Dilma Rousseff, capa della Casa Civil, il gabinetto della presidenza e il posto più importante dopo il presidente, che si incarica del progetto Minha casa, minha vida, costruzione di case per tutti, ma anche ristrutturazione delle villas che non si chiamano più favelas, perché è inutile pensare di svuotare questi immensi villaggi e deportare gli abitanti in palazzoni nuovi, che diventerebbero teatro di degrado e di esclusione altrettanto violento. Meglio rimetterle a posto, portare acqua, fognature, elettricità, far partecipare gli abitanti alla ristrutturazione. Le favelas hanno una storia antica e violenta che è legata alla storia del Brasile, all’eliminazione tardiva della schiavitù nel 1888 e alla mancanza di progetto per i milioni di schiavi neri e indios che si trovarono liberi, ma senza alcuna risorsa e ancora discriminati. Ritiratisi sulle colline attorno alle città, in ghetti di miseria e risentimento, gli abitanti delle favelas non sono solo disperati alla ricerca di fortuna nelle megalopoli brasiliane, ma gente con un sistema di vita, un orgoglio, una storia di odio e violenza che va capita, come Lula ha saputo capire, e non solo spazzata via.

A Dilma Rousseff, il candidato dell’opposizione José Serra, battuto da Lula nel 2002, rimprovera di non avere mai avuto un mandato dagli elettori. La carriera di Dilma, la dama di ferro del governo Lula, è all’ombra del presidente e voluta dal presidente: non è mai dipesa dagli elettori, e certo, questa è un’insufficienza politica importante. Ma anche qui è la storia personale di questa economista borghese del Minas Gerais, a riscattarla dai dubbi. Giovane studentessa universitaria, entra nella militanza politica dopo il golpe del 1964 ed è costretta alla clandestinità; quando viene arrestata nel 1970 a San Paolo, ha un’arma su di sé, che le costerà 22 giorni di tortura e quattro anni di prigione.

Certo il socialdemocratico José Serra dello stesso partito del buono e serio Cardoso, ha un’esperienza politica più consistente. Più volte ministro con Cardoso, sindaco di San Paolo, governatore dello stato di San Paolo, Serra è responsabile di riforme importanti, come quella della sanità, e della lotta contro le multinazionali per ottenere i farmaci generici. E’ un uomo gentile e con un’aria di una certa modestia: durante il suo mandato di governatore, insegnava ogni settimana nella scuola pubblica (ve li vedete Bossi o Formigoni fare lo stesso?).

La grande novità della campagna è la candidatura di Marina Silva, ex-ministro dell’ambiente del governo Lula, che ha lasciato le sue funzioni nel 2008 (anche questo: ve lo immaginereste in Italia?) perché Lula non appoggiava abbastanza la sua politica dello sviluppo sostenibile. Figlia della foresta amazzonica, cresce in una poverissima comunità di seringueiros, raccoglitori di gomma. E’ meticcia, ha una testa piccola, felina: grazie alla militanza in un gruppo marxista di intellettuali sindacalisti dalle idee verdi, riesce a studiare, arrivare all’università e diventare professore di storia e a 35 anni è eletta la più giovane senatrice del Brasile. L’educazione è il suo cavallo di battaglia: “Io sono un miracolo dell’educazione: senza educazione pubblica non potrei essere qui stasera come candidata alle elezioni del Brasile” dice fiera durante il dibattito, e poi la sua foresta: lo sviluppo sostenibile, l’uso delle immense risorse naturali del Brasile per pensare a un futuro ecologicamente responsabile.

E infine Plinio, il vero avversario, anche se senza nessuna chance, contro i tre che comunque restano allineati sulla necessità di far parte del mercato, sulla necessità di un’economia capitalista. Plinio no: serio e con l’autorità dei suoi ottant’anni, dice chiaro che lui è contro il capitalismo, che la società va rifatta da zero, che la riforma agraria è un’evidenza: la terra deve essere ridistribuita equamente, parole vietate in un Brasile che si porta dietro una storia coloniale tutta a parte, in cui nel Cinquecento il re del Portogallo fu costretto a far spartire l’immenso territorio brasiliano, che non interessava a nessuno, tra dodici avventurieri, militari, ebrei recentemente convertiti, dando loro potere assoluto sulle loro terre, lasciandoli liberi di mescolarsi con le donne locali e che lasciarono la marca indelebile del latifondo alla geopolitica del paese.

Ma c’è un’aria di famiglia nonostante tutto tra questi quattro candidati: le parole più ricorrenti nella bocca di tutti loro sono: pubblico, scuola pubblica, salute pubblica, strutture pubbliche… tutti e quattro sanno bene che non si spende per la scuola o per la salute: si investe nella scuola e nella salute, parole semplici, ovvie addirittura, ma che nell’Europa egoista di oggi, dei Sarkozy e dei Berlusconi, suonano come una musica nuova. E di colpo mi chiedo: ma cosa ci è successo? Cosa mi è successo? Perché ho ascoltato inerte quei discorsi di finto realismo, contro tutti gli ideali, che hanno fatto tirare la cinghia solo ai migliori, ai poveri, ai maestri di scuola, ai lavoratori del sociale, ai funzionari dello stato, ai professori, agli educatori e hanno ingrassato le tasche oscene della nuova borghesia che è fiera del suo grasso che cola perché se l’è meritato, e lo lascia colare fuori dalle porte blindate, ben inchiavardate contro il rischio che qualche emigrante assalti la brutta figlia bianca e grassoccia, ma non lo spartisce con nessuno?

Vabbé, qualche amico bravo economista, magari pure di sinistra, mi dirà che non ho capito nulla di questo paese in pochi giorni, che il Brasile vince oggi perché Lula è riuscito a iscriversi nell’ortodossia macroeconomica, perché i tassi di interesse sui titoli del tesoro sono scesi costantemente e perché il coefficiente GINI che misura l’ineguaglianza in un paese è continuato a scendere….

Ma non sarà che pronunciare quelle parole seriamente, poter dire “servizio pubblico” senza scandalizzare i benpensanti, credere alle persone più che ai coefficienti, sia servito a qualcosa?

Solo una raccomandazione a politici, economisti e benpensanti europei: non usate più come insulto espressioni come “la sudamericanizzazione o, peggio, la brasilianizzazione, dell’Italia o della Francia, o della Grecia”, perché sarebbe una fortuna, un gran privilegio, oggi, essere capaci degli ideali di questa giovane democrazia.

Il dibattito elettorale brasiliano su Youtube:

http://www.youtube.com/watch?v=DHVdKZNMoHI



Wednesday, September 15, 2010

Let's Stop Publishing Research Papers


A brief and superficial note published by Tom Bartlett on the Chronicle of Higher Education about my last paper in Social Epistemology


September 15, 2010, 02:51 PM ET

Let's Stop Publishing Research Papers

You do the research, write the paper, submit the paper, wait for peer review, and then, if the paper's accepted, wait several months for the journal to publish. Once it's published what you've written is available to only a handful of journal subscribers and most of them won't read it anyway.

Is that really the best way to get an idea out there?

Gloria Origgi thinks not and so she's ... written a research paper to trash research papers. OK, that's not totally fair. What she's actually trashing is the slow, old-fashioned system of submitting papers to peer-reviewed journals. She's not the first person to make that complaint and she doesn't have a grand plan for how to fix it (though she does throw out a few possibilities, like allowing colleagues to see papers earlier in the writing process so their feedback can be incorporated). Here's the heart of her grievance:

It seems thus in my everyday professional life that academic papers are no more the most efficient way to communicate the state of advancement of my research to my community, nor to keep in contact with my colleagues. Striving to publish in an academic journal does not depend on the efficiency of the papers as tools for communication, but on social norms in use in the academic system that I passively accept because this is the way I have learned to do my job.

The title of her paper is "Epistemic Vigilance and Epistemic Responsibility in the Liquid World of Scientific Publications." I would add to her complaint that I think researchers should stop using needlessly opaque titles.

(The paper is published in Social Epistemology. The abstract is here. The full article—oh, the irony!—is not available online.)