Monday, May 16, 2011

DKS: Non ci resta che ridere

Era stato oracolare Stéphane Guillon, nella sua cronaca irresistibile su radio France Inter, il 17 febbraio 2009, in cui prendeva in giro i costumi libertini del presidente del Fondo Monetario Internazionale, invitato della trasmissione 7 à 10 proprio quella mattina: “Misure eccezionali sono state prese in redazione per la visita di Dominique Strauss Kahn: la presentatrice indosserà un burka e un piano di evacuazione di tutto il personale femminile è previsto, se la situazione fosse fuori controllo. Armadi, spogliatoi e luoghi bui sono stati sigillati e le signore sono pregate di non passeggiare per i corridoi…”. Lo sketch, che potete vedere su You Tube: http://www.youtube.com/watch?v=QekWZCN1Xc4 non era piaciuto Strauss Kahn, ed era costato il posto al povero Guillon, accusato di aver oltrepassato i limiti e di aver mancato di rispetto al serio e rispettabile ex-ministro dell’economia francese.

Salta fuori ora che quel che Strauss Kahn faceva nel 2009 al Fondo Monetario internazionale erano noccioline rispetto a quello di cui è capace. Altro che relazioni extra-coniugali, si può fare di meglio, come saltar fuori nudo dalla vasca da bagno di un hotel di lusso di NY e mettere le mani addosso alla cameriera, o aggredire (come fece nel 2002) la giovane scrittrice francese Tristane Banon, all’epoca ventenne, figlia di una compagna deputata socialista. Strauss-Kahn accetta la proposta di intervista della Banon, le dà appuntamento in un appartamento vuoto, le salta addosso e l’intervista finisce a pugni e graffi sul pavimento, roba da far sembrare i nostri bunga bunga riunioni da oratorio…

Insomma, siamo ben al di là delle scappatelle, e entriamo nel regno della psicopatologia. Ovviamente la bella moglie Anne Sinclair difende il marito a spada tratta, e le donne del suo partito, da Ségolène Royal, a Martine Aubry, richiamano all’ordine, alla decenza (sic!) e si appellano alla “presunzione di innocenza”.

Che dire? Mettiamola così. Se “ogni donna siede sulla propria fortuna”, come ricordava il buon Ostellino in un articolo di qualche tempo fa sul Corriere della Sera, sembra che il maschio più fortunato è e meno riesca a stare seduto….

Sunday, May 15, 2011

Perché andare all'università?


Uno spettro si aggira per gli Stati Uniti: e se l’università non servisse più a niente? L’idea dell’anno che fa discutere l’America su giornali, blogs e televisione è la seguente: a che serve indebitarsi fino ai denti per passare quattro anni al college? Da quando l’aria dei tempi ha invaso anche l’ultimo baluardo della ragione - l’accademia - trasformandolo in un business a tutti gli effetti, con metriche di competitività, managers, joint-ventures e politiche di espansione, un dubbio si è infiltrato nella mente del consumatore americano di conoscenza: ma varrà la pena di spendere una media di trentamila dollari l’anno, di ritrovarsi indebitati alla fine degli studi, per stare quattro anni in un hotel di più o meno lusso a fare sport, uscire con le ragazze e bere birra con gli amici?

Da sinistra e da destra, dall’esterno e dall’interno del sistema, il nuovo business universitario americano è sotto il fuoco incrociato di intellettuali, giornalisti, drop-out di successo e milionari che incoraggiano i giovani a investire il loro tempo e i risparmi dei loro genitori in un modo più utile.

Così James Altucher, imprenditore, venture capitalist, e editorialista del Financial Times, snocciola dalle colonne del suo blog (http://www.jamesaltucher.com ) le 8 alternative al college, tra le quali: gettarsi subito nell’arena e cominciare un’attività imprenditoriale. Unica regola da sapere: comprare a poco e vendere a molto. Secondo Altucher, anche se tutto va male, dopo quattro anni si saprà molto di più di dividendi, strategie commerciali, prestiti bancari etc., di quanto qualsiasi college avrebbe potuto insegnarci. E si rischia pure di aver fatto qualche soldo…Oppure: viaggiare, lavorare per un’organizzazione di beneficienza, scrivere un libro, imparare a fondo le regole di un gioco intelligente (per esempio gli scacchi), dipingere, imparare bene uno sport, recitare.

Gli fa eco Peter Thiel, miliardario high-tech, fondatore di PayPal e uno dei primi investitori entusiasti di Facebook. Libertario convinto, Thiel sostiene che l’istruzione imposta dall’alto non sia che inutile paternalismo, e ha istituito una borsa di non-studio (20 under 20: http://www.thielfoundation.org ) che dà un finanziamento di centomila dollari a venti ragazzi di meno di vent’anni che decidono di lasciar perdere l’università e cercare invece di mettere in pratica la loro idea più visionaria sotto la guida dei migliori imprenditori di Silicon Valley.

Se le posizioni estreme di Altucher e Thiel provocano reazioni indignate, la questione del valore degli studi superiori resta aperta: dopo la crisi finanziaria, la crisi immobiliare, l’America si prepara ad affrontare l’esplosione di una nuova bolla speculativa: l’università. In effetti, dati inquietanti emergono da vari studi, come il libro di Andrew Hacker e Claudia Dreifus, Higher Education? How Colleges Are Wasting Our Money and Failing Our Kids (2010, Times Book), o il rapporto dell’economista Richard K. Vedder, fondatore di un Think Tank sulla sostenibilità dell’istruzione universitaria, ripreso in un articolo del New York Times dal titolo eloquente: Plan B: Skip College? I costi delle rette universitarie sono decuplicati negli ultimi trent’anni, un aumento abnorme, confrontato all’aumento dei costi sanitari (cresciuti di sole sei volte nello stesso arco di tempo) o dell’inflazione (triplicata). In più, si tratta di un business sicuro, dato che gli investimenti nell’istruzione sono gli unici che non calano anche durante la più dura crisi economica. I rettori strapagati delle grandi università americane lo sanno bene, e approfittano delle ansie ataviche della classe media che vede nei figli laureati al college il simbolo della propria riuscita sociale e la sicurezza di un futuro migliore. Cinicamente, i grandi amministratori alzano la posta di entrata nei college esclusivi, ben coscienti che la domanda si manterrà grazie all’effetto di networking di questi club di lusso, per cui i laureati delle università della Ivy League assumono solo laureati che provengono dalle stesse università. Anche le banche sguazzano nel nuovo business: i prestiti per lo studio costituiscono un prezioso prodotto e fidelizzano una clientela di giovani che si troveranno ad avere a che fare con i rimborsi per i successivi vent’anni.

Eppure i dati mostrano che la correlazione tra carriera di successo e buoni studi universitari è scarsa. Inoltre, nell’era di Internet, avere un Master non è nemmeno più una credenziale, dato che i modelli sociali dei giovani sono gli imprenditori senza laurea di Silicon Valley, da Steve Jobs a Zuckerberg. Il mito del giovane genio che inventa il futuro nel garage fa più sognare dell’impettito diplomato di Harvard con stemma sulla giacca.

Insomma, il college non è un buon investimento. Gli stessi soldi investiti in una casa garantirebbero un futuro più roseo ai poveri freshmen indebitati.

Mentre l’Europa si agita in tutti i sensi per rispondere alla sfida della competitività universitaria e si affanna a iniettare un modello aziendalista nelle nostre vecchie istituzioni, l’America comincia a scoprire che il prodotto universitario non serve a niente. Perché? Sembra ovvio, ma evidentemente non lo è per governanti e presidenti di facoltà: semplicemente, come spiega bene il bel saggio di Martha Nussbaum Not For Profit (Princeton University Press) perché le università non servono alla produzione, bensì alla riproduzione di un insieme di valori e di un corpus culturale senza il quale una società perde la sua identità. Forse è più lucido lo studente di filosofia, che non si è mai chiesto che tipo di investimento stava facendo quando si è iscritto all’università, dell’apprendista finanziere che si trova buggerato semplicemente perché ha comprato qualcosa che non si vende e non si compra. Insomma, più Kant e meno account dovrebbe essere lo slogan per salvare i campus dal nonsenso in cui si sono cacciati.

Thursday, May 05, 2011

The Forum Programme

Faking it in business
Sat, 30 April 11
Duration: 41 mins Available.
Poscast: 25 days remaining


The subterfuge of the business world. Behavioural economist Dan Ariely on the posturing of bankers when it comes to big bonuses, sociologist Shehzad Nadeem on the Indian call centre workers who pretend to be Westerners, and Italian philosopher Gloria Origgi on why in business we sometimes conspire to deliver second best.
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